Storia di Treppo Carnico

Il nome del capoluogo si incontra in tutte le lingue d'Europa e se questo rende difficile scioglierne il significato originale, conferma però l'origine lontana e probabilmente gallo-celtica dei primi insediamenti nella zona. Treppo può significare luogo erboso (in sloveno si incontra “Trava” con significato di erba e in dialetto Carnico Trep sta per fascia erbosa), o anche Trivio, dal latino; nel primo caso il nome sottolineerebbe le caratteristiche della località che ai tempi remoti è sempre stata ricca di buoni pascoli, fertile, soleggiata e fuori mano, cosa questa che la rendeva sicura e quindi favorevole alle soste estive dei Carri, quando scendevano per pascolare i loro greggi e rifornirsi di legname. Con l'ingresso di questa tribù Celtica nell'orbita di Roma, le malghe estive divennero luogo di insediamento stabile. Nessun reperto archeologico, che il Pontaiba col suo bacino mottoso e instabile potrebbe nascondere, convalida queste supposizioni, del resto non infondate, in rapporto a vicende simili e documentate di altre zone della Carnia. Anche Treppo fu sotto la giurisdizione di Zuglio nei secoli in cui questo fu sede vescovile. Dopo l'invasioni rovinose, dal'800 al 1000, i villaggi della Val Pontaiba vennero ricostruiti con i nomi attuali, quindi entrarono a far parte dei territori governati dal Patriarca di Aquileia, duca del Friuli dal 1077 al 1420. I primi documenti, a partire del 1100, parlano delle frazioni di Siaio e di Tausia; soltanto nel 1300 si trova menzione di Treppo e Zenodis. Nel 1327 il preposito di Zuglio lascia tutti i suoi beni alle chiese dipendenti da S. Pietro e nell'atto testamentario cita S. Agnese di Siaio, che fu distrutta da una alluvione presumibilmente verso la metà del XVsecolo. Di questo avvenimento parla indirettamente il gastaldo di Tolmezzo in uno scritto del 9 giugno 1453, riguardante l'alta valle del But, quando descrive una località “ruinata et” in Gleriis conversa per la furia delle acque; in quel luogo appunto sorge oggi la frazione di Gleriis. In epoca medioevale la valle faceva parte di un circondario amministrativo governato dal gastaldo residente a Tolmezzo, il quale curava gli interessi del Patriarca e i propri, amministrava la giustizia e curava la difesa dei passi. Dei quattro quartieri della gastaldia, uno faceva capo a S. Pietro di Zuglio e comprendeva anche la Val Pontaiba, i cui paesi sono ancor oggi ricordato come ville di sopra  per distinguerli  dalle ville di sotto della stessa zona. Alla fine del Medio Evo le ville, i paesi cioè ad amministrazione autonoma, divennero Comuni e ne vengono ricordati cinque: Zenodis, Treppo, Siaio, Tersadia e Ligosullo; nella segrestia della chiese di Treppo si conserva ancora una delle casse a triplice chiusura che custodivano i beni comunali. Le condizioni di vita erano quelle di servi che lavoravano terre cedute in feudo dal Patriarca o dal gastaldo a qualche famiglia nobile: infatti a Siaio esiste ancora murato sopra l'ingresso di una casa lo stemma degli Scaligeri. Dal 1420, anno del passaggio di tutta la Carnia e del Friuli sotto il governo della Repubblica Veneta, vennero riattati e ampliati i vecchi “ciastelirs” e sono ricordati quello di Duron ed il castello di Siaio a su di Treppo, il cui colle ancor oggi è detto dal Ciastelàt. Nel 1600 i valligiani si diedero a nuove attività, quelle dei venditori ambulanti e degli arrotini girovaghi: con i proventi dell’emigrazione estiva si provvide a ricostruire le case con muri e tetti di tegole, e anche portali di pietra che in alcune costruzioni si conservano tuttora. Nel 1692, anno della  alluvione in tutta la Carnia, Treppo fu in gran parte distrutta ed alcuni resti, finestre con cardini ancora infissi, vennero alla luce all'inizio del nostro secolo. Nel 1817 Treppo divenne Comune e comprese tutte le ville dalla Val Pontaiba; fu quello l'anno della fame: un'estate freddissima impedì a tutte le messi di maturare. Negli anni successivi una nuova attività, esercitata esclusivamente dagli uomini del capoluogo, portò notevole benessere alla popolazione del paese. Era quella dei “Foraiaris”. che avevano appreso il mestiere come dipendenti di una ditta lombarda in Austria. Quando si misero da soli, partendo in primavera della loro valle e rientrando soltanto in autunno per la festa del Rosario e allora si teneva una gran sagra ricavarono notevoli guadagni ed ebbero il successo che meritavano, perchè il lavoro era duro e li costringeva a soggiornare per tutta l'estate in baracche o fienili abbandonati, ad arrampicarsi per sentieri e dirupi. A nutrirsi del formaggio portato da casa, di latte e polenta.  Il lavoro consisteva nello scegliere i fusti dei larici pronti al taglio, forarli, e quindi raccogliere la resina in grandi mastelli che portavano legati sulle spalle; questa veniva poi filata e la trementina raccolta in vecchi fusti era spedita ai grossisti. Il lavoro dei “Foralaris”. estraendo la resina, facilitava lo scorrimento delle lame durante i lavori di taglio e la loro presenza era quindi gradita: addirittura c'era scambio di cortesie tra i proprietari di boschi e i “Foralaris” che usavano donare falci e coti di Bergamo, e magari anche un fazzoletto di lana o di seta. In quel periodo le casa furono ritrattate e abbellite, così come le vediamo oggi. E i vecchi del luogo, raccontano al visitatore di questo antico mestiere in disuso, indicano le case come testimonianza di quel benessere. Case, dicono , << c'a musin di arian, c'a naisin di peule>>